giovedì 31 dicembre 2009

A spararle grosse...

Da un paio di mesi ho scoperto che l'Ipercoop di Cantù ha un banco vini piuttosto interessante. Davvero ampia la scelta di etichette italiane, con sbalorditivi fuoriclasse da enoteca e una nutrita presenza di bottiglie internazionali. Esteticamente non è il massimo della vita, ma un fuoriprogramma al supermercato canturino, rispetto al solito andirivieni dal Bennet di Lecco, con la sua tristissima carta dei vini, val bene il cambio di rotta.
E' chiaro che occorre, anche all'Ipercoop, scegliere bene. Praticare una giusta mediazione tra nome del vino e prezzo. Credevo di aver scelto bene pescando il Cannonau Le Bombarde 2008 della cantina Santa Maria la Palma, "scaffalato" a circa 5 euro. Invece mi sbagliavo. Colore rubino già tendente al granato, molto poco accattivante al naso, dove il frutto è morto e sepolto sotto decise note di cuoio, terra bagnata e viole sfiorite. Penalizzante, in questo caso, la corrispondenza naso-bocca. Anche al gusto pare un vino già sfiorito nonostante la giovane età del suo corpo esile e spigoloso. Insomma, un Cannonau con le polveri bagnate. Allo stesso prezzo c'è di meglio.

lunedì 30 novembre 2009

Verdicchio da paura sul banco dell'Ipercoop

Tempi duri, per le enoteche, da quando le aziende vinicole hanno deciso di cedere alle facili tentazioni della grande distribuzione, unica a garantire loro il pieno e rapido raggiungimento dell'obiettivo del "magazzino vuoto, cassa piena", vitale per ogni azienda. Ancor più in questi momenti di crisi, in cui occorre più che mai ridurre al minimo l'invenduto e "fare cassa" il prima possibile.
Succede così che oggi anche la massaia abituata a cucinare a Tavernello, Ronco e Castellino, si trova a girare tra gli scaffali dei supermercati tra Bricchi dell'Uccellone e Terre Brune.
Qualche giorno fa sono capitato all'Ipercoop di Cantù quasi per caso, giusto perché era l'unico supermercato con apertura domenicale e avevo urgente bisogno di comprare qualche bottiglia da portare a una cena con vecchi amici. Tutti buoni bevitori, specie il padrone di casa, marchigiano di Jesi.
Così ne ho approfittato per fare scorta di vini anche per le prossime festività. Con un omaggio al padrone di casa.
Decisamente sconsigliato il Syrah australiano Yellow Tail 2004, un vino da bere freddo per riuscire quantomeno a rendere quasi gradevole la sua stucchevolezza.
Evitabile, per chi già come me non ha una grande simpatia per la tipologia, anche il Nero d'Avola Cent'Are Duca di Castelmonte.
Assolutamente piacevole, invece, il Refosco di Piera Martellozzo. Uno di quei rossi da tutto pasto che, se ti perdi in chiacchiere, ne finisci una bottiglia senza neanche accorgertene.
In attesa di mettere alla prova il Contado di Di Majo Norante con il cappone natalizio, urge tessere le lodi del vino che più mi ha incantato nei miei recenti "assaggi da supermercato". E' il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore "Cuprese" 2005 dell'azienda Colonnara, storica cantina sociale che vinifica le uve di circa 190 soci in quel di Cupramontana, entroterra anconetano e patria di questo stupefacente vitigno marchigiano.
Un vino che inganna alla vista e all'olfatto, visto che ti attenderesti importanti gradazioni da quel colore giallo paglierino quasi dorato e da quella sbalorditiva intensità di profumi di fiori gialli, agrumi maturi e grafite. Invece sono solo 12,5 i gradi alcolici e in bocca la sensazione fruttata e minerale domina incontrastata, valorizzata da una freschezza ancora imperante a distanza di 4 anni dalla vendemmia, con una nota finale amaricante di scorza di cedro davvero piacevole.
Un bianco di straordinaria beva, ottimo con gli accostamenti più disparati, dal quasi scontato "spaghetti di mare" agli altrettanto soddisfacenti connubi con polenta uncia e pizza ai 4 formaggi.
Una raccomandazione: serviamolo a non meno di 12° per valorizzare meglio il suo corpo vibrante. Infine il prezzo: 6,50 euro. Anche il mio amico di Jesi è rimasto senza parole.

martedì 26 maggio 2009

Cruasé: poche gioie, molti dolori

Spiace sempre stroncare singole etichette, spiace ancora di più stroncare un'intera tipologia. Dispiace meno quando la tipologia è elevata in pompa magna da faraonici investimenti promozionali atti a convincere il mondo degli addetti al settore che dietro sì bella immagine si cela un contenuto all'altezza delle aspettative create dagli strilloni.
Ma partiamo con ordine. Ieri sera, nella principesca cornice del giardino delle rose della Villa Reale di Monza, si è tenuto un grande banco d'assaggio dei vini dell'Oltrepo Pavese. Bianchi e rossi, con un'attenzione particolare per quel Metodo Classico da uve pinot nero, fresco Docg, e alla sua variante in rosa che, grazie a qualche mente arguta, dal 2010 prenderà il nome di Cruasé (cru + rosé). Un marchio registrato, ovviamente. Perché una parola così bella e geniale rischiava di attirare torme di contraffattori, ansiosi di replicare altrove un prodotto così talentuoso. E qui chiedo scusa ai produttori delle - quelle sì - grandissime bollicine trentine.
Vuoi per restare attaccato con le unghie alla mondanità del mondo del vino che può portare interessanti contatti di lavoro, vuoi per curiosità personale, mi sono presentato alla serata cercando di non pensare a quel terribile incontro che avevo avuto in sala stampa al Vinitaly con il Pinot Nero Rosé di uno dei produttori di punta dell'Oltrepo. Effettivamente nessuna delle etichette assaggiate nel Serrone della Villa Reale ha replicato lontanamente il livello infimo di quel vino fetente, incappato evidentemente in un'annata sfortunata, visto che, sarà un caso, ma è stato prudentemente lasciato a casa dal produttore che stavolta ha preferito mettersi in mostra con due Blanc de noirs di discreta fattura.
Ad ogni modo, dopo aver alzato un tot di volte il calice del futuro Cruasé, la netta impressione che ho avuto, confermata anche dai miei compagni di degustazione, è che si tratti di un vino assolutamente sovrastimato. Spesso citrino, amarognolo e con ricorrenti puzzette di aglio e cipolla davvero molto poco invitanti.
Urge tuttavia segnalare qualche etichetta virtuosa.

I virtuosi
Tra tutti gli OP Metodo Classico Pinot Nero Rosé, quello dell'azienda Fiamberti si è distinto per corpo, eleganza, finezza delle bollicine e piacevolezza di beva. Buone conferme anche da grandi nomi come Ca' di Frara, autrice di un discreto Cruasé.
Tra gli altri Metodo Classico un encomio speciale al Vengomberra Brut, un millesimato da Pinot Nero + Chardonnay secchissimo e finissimo prodotto dall'azienda di Bruno Verdi. Pregevole, infine, anche il Blanc de noirs della Fattoria il Gambero.

In conclusione
Stando alla degustazione, il pinot nero conferma il suo carattere difficile soprattutto nella vinificazione in rosa. Lo standard qualitativo medio non riesce ad entusiasmare e, nonostante i toni trionfalistici di Carlo Alberto Panont, direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, dimostra che l'Oltrepo Pavese è distante ancora anni luce dalla Montagna di Reims. Prendiamone atto e cerchiamo di non far ricadere sul consumatore finale il costo di una campagna promozionale tanto ambiziosa.
N.T.

lunedì 18 maggio 2009

Uno Champagne biologico da paura

Finalmente comincio a capire cosa intendeva dire un mio amico e collega, grande esperto di metodo champenois, quando mi avvertiva di stare alla larga dallo Champagne perché, il giorno in cui avrei aperto le porte alle sue bollicine, non ci sarebbe più stato altro Dio all'infuori di lui.
Sabato sera, ore 23 circa. Di ritorno da una pizza con amici passeggiamo nel minuscolo centro storico di Lecco, muovendoci come una nave rompighiaccio tra la folla delle meglio gioventù brianzola assiepata intorno alle solite 3-4 tipe scosciate, involontarie promotrici dei veleni dei soliti 3-4 bar con tavolini per la strada. Ci facciamo largo tra un tintinnio di Beck's, Ceres, Mojito e Corona e ci infiliamo in uno degli ultimi vicoli dal sapore manzoniano rimasti nella città di Renzo e Lucia, i cui eredi sono ormai diventati tutti piccoli imprenditori di mutande, calzature e happy hour.
Infilata in un'accogliente cantina tra una piazza e un romantico sottopassaggio frequentato quasi solo dai netturbini di prima mattina, l'Osteria del Torchio è un'oasi di genuina vitalità nel p(i)attume omologante che grava sulla cittadina.
Ed è qui che chi ama il vino può trovare di che dissetarsi dopo la passeggiata nel deserto. Cediamo agli interisti felici per il primo scudetto davvero meritato e ordiniamo lo Champagne meno costoso dei tre in lista. Solo 32 euro per il Carte Or Brut della Maison Doquet-Jeanmaire di Vertus, récoltant et manipulant biologico nel sud de la Côte de Blancs.

Raffinatissimo Blanc de Blancs
Perlage finissimo e infinito per questa cuvée tutta chardonnay dal bel colore brillante. Profumi fini ed eleganti di lieviti, agrumi, frutta fresca, fiori d'acacia, latte di mandorle. Gusto fresco e sapido, pieno e succulento, morbido e di ottima struttura, perfetta espressione della sua ricchezza aromatica.
Strepitoso finale di agrumi freschi e mandorle, su una scia sapida molto gradevole che invita a un nuovo assaggio. Il classico vino-rivelazione che può essere un ottimo punto di partenza per andare alla scoperta della Champagne vera, quella senza lustrini e con umanità da vendere. A un prezzo assolutamente accessibile.
N.T.

P.S. La padovana Balan è l'importatore italiano degli Champagne Doquet-Jeanmaire.

martedì 12 maggio 2009

Budvar, la regina delle lager

Noi che ci scandalizziamo per l'esito pro-Ungheria dell'affare Tocai, proviamo a immaginare cosa devono pensare i Cechi, storici produttori di birre chiare, nel vedersi scippare da una multinazionale americana il nome della loro birra più amata, la sublime Budweiser. Che significa "originaria di Budweis", antico nome asburgico di České Budějovice, cittadina fiabesca nel sud della Boemia.
Il problema è che la multinazionale in questione, la Anheuser-Busch di Saint Louis, Missouri, ha colto in contropiede la storica ditta ceca registrando in quasi tutto il mondo, Europa compresa, il marchio Budweiser. Che altri non è che la volgarissima Bud da paninoteca.

La tradizionale birra ceca, invece, è esportata negli Usa con il nome di Czechvar e negli altri paesi, Italia compresa, con quello di Budějovický Budvar.
In questa riproposizione a bassa fermentazione dell'epico duello tra Davide e Golia, l'ha avuta la meglio il gigante americano, che nel 2007 ha acquisito i diritti di importazione negli Usa della birra ceca. Molti temono che quello sia stato il primo passo verso la fine della gloriosa Budějovický Budvar e della storica fabbrica di České Budějovice. Sarebbe un peccato perché tra l'originale ceca e l'imitazione americana corre la stessa differenza che passa tra un ottimo Champagne e un Franciacorta riuscito male. Di conseguenza, al supermercato, salviamo le tradizioni genuine e il buon gusto. Beviamo Budvar e lasciamo la Bud alle formiche.
N.T.

mercoledì 6 maggio 2009

Esame Ais, cronaca della prova orale

Come al solito non bisognerebbe mai dare retta ai racconti degli esaminandi che finiscono sotto torchio per primi. C'è chi, uscito dalla sala di degustazione con annessa camera della tortura, suggerisce tremante l'orrorifico monito "Non andare dal commissario", chi invece consiglia in lacrime di evitare "il bergamasco", secondo esaminatore.
Poi, alla prova dei fatti, capisci che, come sempre, "il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge". Certo, non bisogna farlo imbufalire. Su alcune nozioni fondamentali non si può transigere e occorre concentrarsi su quelle. Dove si trova il Pomerol, per esempio, come funziona il "metodo champenois" o, ancora, quali sono i passiti rossi secchi d'Italia (es. Amarone e Sforzato). E pazienza se non ti ricordi tutte le zone vinicole del Cile o tutti i vitigni dell'Argentina, e se la tensione ti fa dimenticare che il petit rouge è un'uva valdostana. Quelle sono domande fatte ad arte per avere subito un'idea del grado di preparazione dell'allievo. E' evidente, infatti, che se uno è in grado di recitare a memoria i gradi Oeschle dei QmP tedeschi presumibilmente saprà anche la differenza tra il Barolo e il Barbaresco e i loro comuni di produzione. Così come ricorderà le diverse sottozone del Chianti e l'uva con cui è fatto il Taurasi. Non sono i dettagli a fare la differenza. Però sono inammissibili errori sui vini più famosi d'Italia e di Francia. E non sapere la differenza tra la birra e un distillato. Oppure abbinare una crostata di frutta con un Franciacorta Extra Brut.
Un consiglio, quindi. Concentrarsi sui macroargomenti e, per ognuno di questi, ricordarsi qualche nozioncina da sciorinare con nonchalance. Ad ogni modo non crediate di essere promossi solo perché avete pagato fior di quattrini i 3 corsi Ais. Ne va della reputazione di tutta l'Associazione.
N.T.

mercoledì 22 aprile 2009

Terzo livello Ais, cronaca dell'esame scritto

Che non sarebbe stata una formalità già si sapeva. E meno male. Dopo tanto dispendio di tempo, fegato e denaro per frequentare i tre livelli dell'Associazione italiana sommelier ci sarei rimasto davvero male se il temuto esamone finale si fosse risolto "a tarallucci e vino". Invece, nel mio caso, è finito a Chianti Classico e Pecorino Senese. Anzi, iniziato, visto che i giochi sono cominciati intorno alle 14,30 proprio dalla valutazione di un bianco (Sauvignon) e dalla scheda di abbinamento vino e cibo. All'altra metà dei corsisti è toccato valutare, invece, un bianco col vitello tonnato.
Piatti freddi, avevamo preventivato. E piatti freddi sono stati.
Dopodiché via con il questionario. Vero falso, domande a risposta multipla. Fino a giocarsi tutto sulle 10 domande aperte, quelle più pesanti ai fini del punteggio finale. Constatazione. Se si arriva all'esame senza lacune particolari le dieci domande sono assolutamente accessibili.

A spanne, a me è toccato:
1) Docg e relativi vitigni di Veneto, Abruzzo e Campania.
2) Procedimento di produzione della birra e differenza tra birre ad alta e bassa fermentazione.
3) Quali sono le 3 voci nella scheda vino che pesano più per coefficiente di punteggio (e qual è il coefficiente).
4) Differenza tra Whisky e Whiskey e metodo di produzione del Whisky scozzese.
5) Fillossera
6) Maturazione fenolica e maturazione tecnologica
7) Vitigni, zona di produzione, tipologie di Porto
8) 3 esempi di abbinamento x concordanza di vini e piatti aromatici
9) risotto, scampi e zucchine: caratteristiche e tre vini da abbinamento
10) California: zone vinicole e relativi vitigni

Qualche nozionismo "spinto" solo nei vero-falso e nelle risposte multiple (es. gradi Babo e acidità dell'Extravergine), ma tanto quelle valgono poco.
Consapevole di aver inevitabilmente scritto qualche minchiata, confido nell'orale. Appuntamento al 5 maggio. Stay tuned.
N.T.

giovedì 16 aprile 2009

Abbuffata didattica con tormentone


E infine arrivarono le Sacher e saltò l'ultimo tappo: quello della 50 cl di Tre Filer 2005 di Ca' dei Frati. Si è concluso con questo abbinamento volutamente stiracchiato per i capelli il cenone didattico pre-esamone finale Ais. Martedì ci aspettano gli scritti e avevamo voglia di stemperare paure, dubbi, curiosità riuniti intorno a una tavola nella splendida magione di un nostro compagno di avventura, con finestre sull'Adda e sul Castello dell'Innominato e guardata a vista da Dick, un enorme pastore alsaziano a pelo lungo. Serata riuscita alla grande. Unico neo: ho scordato la digitale. Pace.
Non mi dilungo a descrivere le cinque bottiglie che hanno preceduto il dolce passito gardesano e che hanno accompagnato magnificamente salmone, halibut, branzino e trota affumicata, culatello, Parma, salame di Felino, lardo di Colonnata e lardo di Arnad, Grana Padano, Pecorino senese, Bitto, Gorgonzola e Roquefort.
Dico solo che, con la scusa che ciascuno dei convitati aveva l'obbligo di coprire le proprie bottiglie con la carta stagnola per dare alla degustazione un tocco di suspence e mistero, un burlone ha avuto la geniale idea di rifilarci una sòla. Ma noi l'abbiamo sbugiardato subito, bocciando incondizionatamente quel rosso acidulo e privo di tannini che l'amico voleva spacciarci x grande vino. Che era, invece, davvero un Vino del Cazzo.
La serata da goliardi edonisti - roba che, se davvero esistesse il contrappasso, nella prossima vita rinasceremmo tutti nel Terzo Mondo - si è conclusa, dicevo, con due splendide Sacher della pasticceria "Arte e Sapori" di Oggiono (Lc), una strepitosa oasi di delizia nel grigiore del gusto brianzolo.
Accompagnate, per l'occasione, con il Tre Filer della lombarda Ca' dei Frati, azienda venerata dai cultori del Lugana. Ed è qui che, a coronare la serata goliardica, è partito puntuale il tormentone, quello del "risottone".
Già, perché questo passito barricato da uve trebbiano di Lugana integrate con chardonnay e sauvignon ha rivelato un'ottima intensità aromatica fruttata di pesca bianca, agrumi canditi, albicocca, floreale di camomilla, "sporcata" però da una nota piuttosto evidente di soffritto di cipolle che ha fatto pensare a tutti al risotto giallo, forse anche per via della persistenza infinita del Sauternes "zafferanoso" che lo aveva preceduto sul tavolo di degustazione. Ad ogni modo il Tre Filler si è subito riscattato in bocca, con un corpo ben distribuito tra morbidezze e durezze, anche se sono state queste ultime a prevalere per via della decisa sapidità e dell'ottima freschezza sospinta anche dal retrogusto finale di pompelmo rosa. Senza dubbio un ottimo passito, anche se siamo stati tutti concordi nel preferire gli altri bianchi secchi della mitica azienda di Sirmione. Oltretutto l'acidità del vino mal si è sposata con quella della marmellata di cui abbondavano - giustamente - le Sacher. Un vino come il Tre Filer avrebbe avuto senza dubbio maggior fortuna con un fegato d'oca o con dei dolci cremosi a pasta sfoglia. Ripasso a parte, la cena è servita ad avere conferma dei timori manifestati all'ultima lezione da Rossella Romani, docente e vicepresidente Ais nazionale: hanno creato dei mostri.
N.T.

lunedì 13 aprile 2009

Vinitaly 2009, le dritte del maestro Guido Invernizzi

Guido Invernizzi, vulcanico sommelier della sezione Ais di Novara, ci guida anche quest'anno alla scoperta di alcuni tesori nascosti tra i padiglioni del Vinitaly.
Vini tanto buoni da bersene, come lui stesso ammetterebbe a telecamere spente, interi tir e autocisterne. Dopo avere avuto la fortuna di seguire alcune sue lezioni durante i corsi Ais sono assolutamente convinto che con un po' di allenamento alla diretta il buon medico d'origine lecchese potrebbe diventare un animale televisivo assolutamente impareggiabile. Ma anche totalmente sprecato in rubriche da fine Tg inutili, impagliate e stucchevoli come i vari "Gusto" e affini.
N.T.

sabato 4 aprile 2009

Tra sorprese e conferme, al Vinitaly si scavalla anche la crisi

Potremmo eleggere a simbolo del Vinitaly 2009 la gigantesca macchina scavallante di fabbricazione olandese che incombe minacciosa al centro del piazzale tra i padiglioni di Puglia e Toscana. Pare uscita direttamente da Terminator per scavallare vigne e crisi. Crisi? Il mondo del vino riunito nell'annuale appuntamento a Verona per la manifestazione enologica più importante del pianeta pare godere di perfetta forma, immune dalle sciagure dell'economia mondiale. Almeno, questa è l'impressione che ho avuto nella mia consueta due giorni, giovedì e venerdì, riservata agli operatori.
Ma si sa, questi eventi sono fatti apposta per, appunto, mettersi in mostra comunque e nonostante tutto. Per regalare sorrisi a profusione, farsi dei gran complimentoni e distribuire generose strette di mano a destra e a manca. E la crisi? Non c'è. Arriverà, forse. L'onda lunga dello Tsunami bancario scoppiato in America deve ancora travolgere il settore vinicolo europeo, specie quello italiano e francese, i due principali esportatori di vino del mondo. Tuttavia l'impressione è che la tanto paventata "onda lunga" arriverà, se arriverà, giusto a bagnare le punte dei piedi ai nostri produttori. Che si fanno forti di una fama costruita in anni e anni di lavoro serio, di selezioni in vigna sempre più esasperate, di sopraffine tecniche di cantina, di investimenti sull'enoturismo che fanno ben sperare.

Detto questo, parliamo di vino. Ho scoperto che l'Asprinio di Aversa di Grotta del Sole fa capottare in veranda da tanto che è buono, così come il loro Gragnano sorrentino, uno stupefacente rosso frizzante degno del miglior Lambrusco padano. Ho avuto la conferma che di Lugana del Garda me ne berrei intere autocisterne, non a caso il vitigno è parente strettissimo del mio amato Verdicchio marchigiano. Così come il Sauvignon del Veneto e il Gewurztraminer altoatesino mi fanno godere come un matto. Non posso dire altrettanto delle mediaticamente pompatissime bollicine Docg di una nota azienda dell'Oltrepo che in sala stampa ha scatenato una sadicissima caccia alla puzza tra me e un paio di colleghi. Alla fine ha vinto il sentore di sudore secco di ascella di vignaiolo con maglia di lana. Quando ci si mette, il pinot nero sa essere ancor più capriccioso e fetente dei giornalisti!
Ho scoperto quanto sono buoni tutti i nebbiolo del Piemonte minore, soprattutto quelli di Boca, Lessona e Carema.
Mi sono illuso di essere al cospetto del mitico Giovanni Cherchi, icona della vitivinicoltura di Gallura e autore di un Vermentino e di un Cagnulari assolutamente impareggiabili. E invece era un suo parente affiancato dai nipoti del titolare, intagliati in lineamenti duri e cortesi alla Gianfranco Zola.
Ho avuto la conferma che l'Aglianico se la gioca alla grande con il Barolo per l'élite del miglior rosso d'Italia, quindi d'Europa, quindi del mondo.
Ho dovuto anche ricredermi sul Chianti Classico, che ho sempre giudicato "roba per americani" e che, invece, può ancora essere un grandissimo grazie a qualche produttore fedele per lignaggio alle tradizioni, come il Conte Sebastiano Capponi, o a enotecnici intelligenti e moderni come Paolo de Marchi di Isole e Olena, di cui ho apprezzato molto di più lo schietto Chianti Classico 2006 che non il blasonatissimo supertuscan Cepparello, annata 2005.
Ma, più che tutto, ho avuto la conferma che, spesso, le soprese migliori e gli aneddoti più interessanti è facile che arrivino proprio dagli stand meno frequentati dai lettori di guide, riviste e annuari vari. Metti il vino di San Colombano, per esempio. Il cosiddetto "vin de Milan", che in realtà è più piacentino che meneghino. Lo fanno una quindicina di aziende su una collina a sud di Lodi, a circa 50 km da Milano, presso il confine con l'Emilia. Indimenticabile, per esempio, il Franco Riccardi dell'azienda Nettare dei Santi, sorta di delizioso ed economico (solo 8 euro!) "Sforzato" o "Amarone", vedete un po' voi, da appassimento di uve merlot e cabernet sauvignon. Davvero un vino della madunina!
Nicola Taffuri

domenica 29 marzo 2009

Nebbiolo Grapes: uno splendido Giornata

Dispiace per il tempo cupo e piovoso assai, altrimenti si sarebbe potuta fare qualche bella foto primaverile delle terrazze vitate sopra Sondrio, quelle della sottozona Sassella. E magari inserire nella cornice i monti circostanti ancora carichi della neve caduta quest'inverno, finalmente copiosa più per la felicità delle località sciistiche che di quella dei glaciologhi, ormai rassegnati all'innesorabile arretramento dei ghiacciai alpini. Ma non si può aver tutto. Il Nebbiolo Grapes 2009 è ben valso la scampagnata in Valtellina. Tra andata e ritorno, 200 km di Statale martoriata dal maltempo e dal traffico pesante.
Dovendo purtroppo fare i conti con il bisogno vitale di conservare la patente e con la mia assoluta incapacità di servirmi delle sputacchiere, la giornata a tu per tu con 200 etichette di Nebbiolo di tutto il mondo ha imposto delle scelte obbligate. Assaggi mirati alle aziende meno note di Valtellina e Piemonte, luoghi d'elezione di questa prodigiosa uva italiana, e grande curiosità per i loro fratellini sparsi qua e là tra Australia, Sud Africa e California. Risultato: forse il nebbiolo, con la pazienza e la dedizione che si conviene ai grandi vecchi, è capace davvero di imparare a parlare l'inglese. L'inflessione californiana è quella che gli riesce meglio.

Il Nebbiolo della South-Central Coast
Le luccicano gli occhi a Stephy Terrizzi, la giovane titolare della californiana Giornata Wines, mentre sull'avveniristico cellulare (vive a Paso Robles, 133 miglia a sud della Silicon Valley!) del marito Brian mi mostra i loro due biondissimi gemellini che mangiano a piene mani i dolcissimi grappoli maturi del nebbiolo di famiglia. Il paesaggio ricorda a tratti quello della Maremma del Morellino, se non fosse per gli inquietanti primi piani sulle pelose tarantole grosse come una mano che bazzicano tra i sassi bianchi dei vigneti. Megalomani pure con gli aracnidi, 'sti americani.
E pure avventurosi fino a sconfinare nell'irriverenza, quando scopri che, a differenza della stragrande maggioranza dei produttori californiani, i coniugi Terrizzi hanno snobbato zinfandel, cabernet, merlot e pinot nero per impiantare invece barbatelle di nebbiolo e sangiovese, i due vitigni di cui noi italiani siamo più fieri e gelosi. E poi pure il moscato giallo, con cui fanno una sorta di delizioso Vin Santo.
Poi, invece, ci parli assieme e scopri una spontaneità, un'umiltà e una passione assolutamente contagiose, che sono il migliore risarcimento per il dolore di tutte quelle famiglie di coloni che nei secoli hanno inseguito il miraggio della Terra Promessa, finendo spesso con il lasciare le loro ossa a sbiancare lungo le piste per la California.
Confida Stephy "In questa zona la terra costa molto meno che in Napa. E poi noi siamo pazzamente innamorati dell'Italia e dei suoi vini".
Del loro Nebbiolo 2006 ne hanno fatte solo un migliaio di bottiglie. Un vino, di conseguenza, assolutamente sperimentale. Ma, vi assicuro, durante gli assaggi è riuscito a conquistare gli elogi anche del più accanito barolista. Riconoscibile, corpulento ed elegante, con un tocco ben dosato di morbidezza all'americana ma per nulla prevaricante sul carattere indomito del vitigno.
Nicola Taffuri

venerdì 20 marzo 2009

Un Syrah da prendere al volo

Tra gli scaffali del supermercato alcuni nomi sono una garanzia. Prendiamo ad esempio la linea GDO di Feudo Arancio, composta da Chardonnay, Grillo, Inzolia, Merlot, Nero d'Avola, Cabernet Sauvignon e Syrah. Ovvero tutta la moderna tipicità della Sicilia del vino, dove accanto alle grandi uve della tradizione troviamo alcuni dei più grandi vitigni internazionali che in Trinacria si sono ambientati talmente bene da aver ormai ottenuto la cittadinanza onoraria.
Penso, ad esempio, al Syrah 2007 che ho stappato giusto ieri.
Rubino scuro, intenso e consistente, ha profumi intensi assolutamente accattivanti di more fresche e confettura di mirtilli, in un'amalgama di liquerizia e spezie davvero molto invitante in cui si fa timidamente strada anche una leggera nota erbacea. Caldo, morbido e corposo in bocca, vanta ancora una buona acidità e un tannino levigato e per nulla aggressivo.
Del resto non è stato fatto per essere messo in cantina in attesa di chissà quale affinamento. E' nato per essere bevuto giovane, entro 2-3 anni dalla vendemmia.
Cosa possiamo pretendere di più da un vino che costa appena cinque euro o giù di lì e che regge alla grande accostamenti con piatti di buona struttura come risotti con salsiccia, carni alla brace e formaggi piccanti?
Nicola Taffuri

mercoledì 18 marzo 2009

Globalizzazione fuori moda

Ormai siamo agli sgoccioli con il corso Ais. A fine aprile mega-esamone generale e poi via, tutti a 'mbriacarsi in giro x il mondo. Un mondo di colori, carnagioni, lacrime amare e sorrisi brillantati, volti rugosi cotti dal sole, lifting e paillettes, unghie sporche di terra, cantine fantascientifiche e piccoli laboratori alchimistici. Un universo di colori, profumi e sapori che alle volte, alle latitudini più disparate, ci fa esclamare "Quant'è piccolo il mondo!". Da anni ormai il miglior Sauvignon non è più quello della Loira ma quello neozelandese, così come il Syrah australiano le suona tranquillamente a quelli dell'alta valle del Rodano e di tagli bordolesi capaci di stare al passo con un buon Bordeaux ne è pieno il Pianeta, da Bolgheri alla California. Così come in Cile possiamo bere una buona Bonarda e qualcuno, in altri continenti, comincia pure a cimentarsi con il mitico nebbiolo, il più grande vitigno italiano, fino a pochi anni fa escluso dagli interessi degli investitori esteri.

Globalizzazione? Forse. Ma, se ci pensiamo bene, la tendenza globalizzatrice non ha sempre fatto parte della storia della civiltà? Da quando esistono i commerci le società si sono sempre scambiate prodotti di ogni genere, agricoli, manifatturieri e persino "merce umana". Il riso ce l'hanno portato mille anni fa gli Arabi assieme allo zafferano (--> az-za-faran), così come il pomodoro, il mais e la patata , i peperoni e le melanzane sono gentile omaggio degli indios d'America, il grano è originario della Cina, mentre gran parte della frutta così come ogni vitigno di vitis vinifera sativa, quella commestibile e adatta per fare il vino, proviene dall'Asia Minore. E questo solo per citare gli esempi più clamorosi di questo tipo di antica globalizzazione che ha salvato nel corso dei secoli miliardi di persone dalla carestia e dalla denutrizione. In tempi più recenti il commercio globale ha pure consentito a storiche economie locali non solo di sopravvivere, ma anche di trarre grandi profitti vendendo altrove prodotti di alta qualità che altrimenti sarebbero rimasti confinati in un anonimato ad uso e consumo della gente del posto. Penso alla Valtellina e alla sua Bresaola fatta interamente con manzi provenienti da Brasile e Argentina, così come il grano saraceno dei pizzoccheri e degli sciatt viene oggi importato dalla Cina, peraltro sua vera terra d'origine.
La globalizzazione ha cominciato ad assumere una connotazione negativa con l'inarrestabile intensificazione dei traffici aerei e con l'imposizione sul mercato di poche cultivar geneticamente modificate e rinforzate chimicamente da parte delle multinazionali alimentari, chimiche e farmaceutiche. E' a quel punto che il millenario scambio di merci ed esperienze è deragliato su un campo minato, andando dietro alla perversa tirannide del mercato globale ma dimenticando le sacre leggi della Natura e dei suoi tempi. In nome di un mercato vorace e impaziente e delle sue spietate strategie di marketing, la nuova globalizzazione non porta più ricchezza ma impoverisce ciò che abbiamo di più prezioso: la VARIETA'. Inaridisce la biodiversità premiando pochissime specie vegetali e animali superresistenti e superproduttive, e allo stesso tempo devasta le economie locali asservite alla produzione di monocolture da destinare agli insaziabili mercati occidentali. A noi. La forma mentis di chi favorisce tutto ciò è la stessa di chi vorrebbe che ognuno parlasse la stessa lingua e predicasse la medesima religione, prendesse gli stessi medicinali e guardasse gli stessi programmi televisivi. In nome del profitto e del consenso, ci dimentichiamo che quello che ci ha salvato dall'estinzione è stata proprio la ricchezza e la varietà, di razza e di cultura, anche alimentare. La salvezza non può passare che da un rinnovato rispetto dei cicli stagionali e delle economie locali, cercando di portare in tavola sempre e comunque i prodotti del territorio provenienti da aziende di piccole o medie dimensioni. Quelle che non sono soggette alla tirannide delle multinazionali finanziarie. Slowfood lo dice da più di vent'anni e ha fondato pure una rete internazionale che si chiama Terramadre. Oggi finalmente pare che essere "bio" e "local" sia diventato trendy e il consumatore stia interessandosi anche a questa nuova moda, una volta tanto virtuosa. A dimostrazione di ciò vale la pena segnalare il fenomeno dei numerosi Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) che stanno sorgendo in tutta Italia.
Nicola Taffuri

mercoledì 11 marzo 2009

Mini corso online sui vini biologici

Quello dell'agricoltura biologica è un comparto destinato a crescere in maniera esponenziale nei prossimi anni, forte della comune riscoperta dei prodotti genuini stagionali e, soprattutto, del ritardo accumulato in Italia rispetto al resto del mondo occidentale. E' ora che anche noi ci si dia una mossa, anche a livello promozionale. Per capirne qualcosa in più in maniera semplice ed esaustiva vale la pena partire proprio dalla filiera vitivinicola, particolarmente interessata dal fenomeno bio. Sul sito ilVinoBiologico.it è appena cominciato un breve corso on line dedicato proprio ai vini biologici. Cliccando qui possiamo scaricarne l'interessante introduzione. E procedere poi alle puntate successive che ci faranno capire perché il biologico fa bene alla salute, al territorio, all'economia locale e, di riflesso, a quella nazionale. Per poter accedere al download occorre prima iscriversi alla newsletter. Il sito ha anche un blog sempre aggiornato e un gruppo su Facebook.
N.T.

lunedì 9 marzo 2009

La Ribona, strepitoso bianco marchigiano

A mio modesto parere la ribona è uno dei migliori vitigni a bacca bianca d'Italia. Del resto non stiamo parlando di un'uva nota solo a pochi fanatici estimatori dell'"autoctono a tutti i costi", bensì di un vitigno che i più recenti studi sul dna della vite hanno riconosciuto come parente stretto dell'illustre verdicchio. Pare appurato si tratti infatti della varietà maceratese dell'uva tipica dei Castelli di Jesi e della zona di Matelica. Non a caso la ribona è meglio conosciuta come maceratino.
Io che amo il Verdicchio in tutte le sue forme e declinazioni, compreso quel Lugana fatto con il verdicchio che sul Garda prende il nome di trebbiano di Lugana, mi sono appassionato alla Ribona al primo assaggio. Vinitaly 2008, stand dell'azienda Boccadigabbia.

Colli Maceratesi Doc Ribona "Le Grane" 2007
Se negli ultimi anni la Ribona sta riuscendo a guadagnare spazi sempre maggiori nel vigneto maceratese, lo si deve anche a produttori seri e onesti come Elvidio Alessandri, che studiano ogni minimo dettaglio nella produzione dei loro vini, mettendo il vitigno giusto al posto giusto e adottando in cantina le pratiche più adatte per valorizzare le grandi uve del territorio, siano esse internazionali o autoctone.
Prendiamo la Ribona "Le Grane", che potremmo impropriamente definire una sorta di "ripasso" della versione classica del bianco maceratese. Finita la prima fermentazione, al vino si aggiungono nuove uve da vendemmia tardiva, dando inizio a una seconda fermentazione che conferisce nuova concentrazione e bouquet aromatico. Proprio per preservare la ricchezza degli aromi tipici del vitigno non si usa la barrigue, e infatti il vino presenta una deliziosa concentrazione di note di frutta gialla matura mai dolciastre o "stucchevolmente vanigliose".
In bocca ha un meraviglioso nerbo fresco, morbido e sapido, e restituisce tutte le deliziose sensazioni fruttate olfattive con l'aggiunta di un piacevole retrogusto amaricante che non fa che confermare la sua illustre discendenza dal Verdicchio.
Di ribona e maceratino ne sentiremo certo parlare nei prossimi anni. Nel frattempo andiamo a conoscerla di persona, magari già al prossimo Vinitaly.
Nicola Taffuri

*Dello stesso produttore:
"Akronte" 2004
"Saltapicchio" 2005

lunedì 2 marzo 2009

Lo Champagne del Monte Orfano

Premetto subito che non sono un appassionato delle bollicine in bianco. In questi anni ho assaggiato, spesso a scopo didattico, tanti spumanti italiani e stranieri, metodo classico e charmat. Tuttavia continuo a preferire i bianchi fermi, anche come aperitivo. Chissà, magari è solo questione di affinare ulteriormente il gusto. Messe le mani avanti, posso comunque dire di essere ormai in grado di riconoscere quando uno spumante ha una marcia in più rispetto a quanto si è soliti trovare sui banchi d'assaggio di eventi enogastronomici troppo spesso autoreferenziali e ruffiani verso le mode del gusto. Parlando di Franciacorta Docg, le bollicine della piccola azienda agricola Faccoli, di Coccaglio (Bs) rappresentano certamente uno di quei tesori nascosti che ancora sfuggono alle mappe suggerite dalle guide blasonate. Ai fratelli Claudio e Marco, figli di quel Lorenzo Faccoli che fondò l'azienda nei primi anni Sessanta, basta il passaparola delle persone che capitano nella loro cantina e tornano a casa con il sorriso di chi ha trovato un tesoro e lo vuole condividere con gli amici.
Sabato scorso sono stati proprio una coppia di miei amici, in apertura di cena, a far saltare il tappo all'Extra Brut, una cuvée di chardonnay (70%), pinot bianco e pinot nero, coltivate sulla media collina del Monte Orfano, ultima propaggine morenica a sud-ovest della Franciacorta. Erano convinti che avrei apprezzato. Ho apprezzato, e tanto.

Franciacorta Docg Extra Brut - Az.Agr. Faccoli Lorenzo
Schiuma sontuosa, perlage finissimo e pressocché infinito, profumi intensi e fragranti di lievito di pane, agrumi freschi e lavanda. La straordinaria freschezza agrumata sospinta dalle bollicine solletica il palato e ci fa aprire gli occhi dallo stupore. Per poi socchiuderli al secondo sorso e volare con il pensiero alla valle della Marna in una psichedelia del gusto di rara persistenza. Per questo raffinatissimo Metodo Classico italiano gli abusati paragoni con lo Champagne sono quanto mai appropriati.
Nicola Taffuri

venerdì 27 febbraio 2009

Wurstel fallici e gastronomia dopata

Se amate i wurstel non leggete questo post. Se siete i fedelissimi dell'hot-dog, quello che vi sparate all'uscita dallo stadio oppure al chiosco tra il benzinaio e il semaforo, di ritorno dalle vostri folli nottate alcoliche, abbandonate la pagina e tornate a cazzeggiare su facebook. Sto per svelarvi quali sono alcuni degli ingredienti del vostro tremolante e cadaverico salsicciotto preferito. E dubito che, dopo averlo saputo, continuerete a ingollarlo di gusto e a fare le solite stupide battute ammiccanti l'organo sessuale maschile.
Prima però, vi dico due-tre cosine su degli altri alimenti. Vi chiederete "ma che cacchio c'ha questo oggi?" Niente. E' solo che ai corsi per diventare sommelier insegnano anche come riconoscere un prodotto di qualità da quelli fatti in fretta e furia per soddisfare l'avidità del mercato, oppure addirittura confezionati con lo scarto dello scarto della materia prima iniziale. E in questi giorni abbiamo parlato di carni e salumi. Continua qui...

martedì 17 febbraio 2009

Il Roussillon, la Francia più segreta


Grazie al Cronistadelvino.it ieri ho partecipato a Milano a un incontro sui vini del Roussillon, regione dell'estremo sud francese, sospesa tra Mediterraneo e Pirenei.
Ecco il resoconto approfondito dell'evento.
Nicola Taffuri

lunedì 9 febbraio 2009

Akronte, traghettatore nel girone degli Ebbri

Ogni volta che stappo una bottiglia di vino della marchigiana Boccadigabbia sono gioie e dolori. Gioie perché, siano essi bianchi come la Ribona o rossi come il Pix o il Saltapicchio, si tratta sempre di prodotti assolutamente entusiasmanti. Dolori perché tanta bontà non riesce a tenere a freno la mia smisurata golosità. Prenoto quindi con un po' di anticipo - e qui faccio tutti gli scongiuri del caso - un posto nel girone dei Golosi e degli Ebbri e vado a comprare un biglietto dal caro traghettatore di anime Caronte. Andata e ritorno, ovviamente. Perché, smaltite le alte gradazioni dell'Akronte, ho ancora qualche faccenda da sbrigare nel mondo dei vivi.

Prende il nome dal fosso Caronte che delimita il confine sud dell'azienda
L'"Akronte" è il vino di punta dell'azienda di Civitanova Marche, un vero fuoriclasse che ogni anno fa il pieno di premi e ricoscimenti da ogniddove. Dovendogli affidare un ruolo calcistico direi che il più appropriato sarebbe senza dubbio quello del vecchio centravanti di sfondamento, una sorta di Bobo Vieri dall'improbabile accento francese. Che brutta immagine! Però rende bene, perché questo muscoloso rosso è fatto con uve cabernet sauvignon in purezza, coltivate nei terreni che lo stesso Napoleone Bonaparte aveva fatto catalogare tra i 100 Poderi "demaniali" della zona di Civitanova Marche più vocati per la viticoltura.
Colore rosso granato molto intenso e scuro, quasi impenetrabile, ha profumi intensi dotati di buona eleganza e notevole complessità. Ribes nero, ciliege sotto spirito e confettura di prugne vanno a fondersi in un circo di vorticose sensazioni di mallo di noce, tabacco dolce, mentolo, cioccolato, pepe verde e china che fanno veramente girare la testa. Sensazioni che tornano in bocca con un abbraccio vigoroso ma assolutamente cordiale. Morbido, rotondo e vispo, esibisce una tale ricchezza di argomenti che staresti lì ad ascoltarlo fino all'ultima goccia. E così ho fatto, assieme ai miei due convitati. Dura, poi, smaltire i 15 (!) gradi alcolici subdolamente celati sotto la sua veste elegante. Prezzo in enoteca, circa 40 euro.
Nicola Taffuri

martedì 3 febbraio 2009

Barolo in salamoia

Domenica mattina. Vetri appannati, giornata fredda e tepore casalingo ravvivato dal profumo della carne arrosto e della polenta che strepita nel rame. Scendo in cantina e punto diritto al ripiano più alto, quello dedicato ai "piemontesi". Ho voglia di Barolo, stavolta non c'è Chianti, Valpolicella o Montepulciano che tenga.
Prendo la bottiglia di un produttore a me caro perché è simpaticissimo e mi ha abituato a grandi vini. Questa sua selezione di Barolo, però, non l'avevo ancora assaggiata. Risalgo in cucina.

La degustazione
Dopo un'ora, svanita la condensa sulla bottiglia, prendo il cavatappi e apro. Tappo perfetto. Verso il vino. "Però, com'è scuro!", penso. Annuso. Poco o nulla, troppo freddo ancora. Aspetto.
Vado alla luce. Il colore è granato ma decisamente più scuro e intenso rispetto a quello dei vari nebbiolo piemontesi o valtellinesi che ho assaggiato in passato, solitamente poverelli di estratti. Oltretutto della caratteristica tonalità aranciata nemmeno il più piccolo accenno. D'accordo, l'annata è la 2004, la più giovane attualmente in commercio, però la cosa mi lascia un tantino stupito.
Stringo il baloon tra i palmi caldi delle mani, do una ruotatina veloce e annuso, pronto ad abbandonarmi all'intensità del Barolo. "Tutto qua?", penso. "Mah. Diamogli ancora qualche minuto". Comincio a valutare complessità e finezza.
Ciliegie, prugne, un pizzico di noce moscata, sottobosco. Mica tanto eleganti, però. Anche perché..."Ma cos'è quest'odore sgradevole? Sa come di...olive in salamoia, ma potrebbero essere anche cetrioli...Cos'è, un Cabernet andato a male?".
Ruoto il calice nel tentativo di eliminare le fastidiose puzzette ma ottengo il risultato opposto. Con 1-2 gradi in più le olive in salamoia si mischiano con il peperone cotto e con il limone rancido. "Terribile", penso, mentre vado in cucina a versare il vino nel lavandino. E' la prima volta che mi capita di non riuscire a bere un Barolo. Chiedo consigli a voi su cosa possa essere successo ma in cambio non chiedetemi il nome del produttore. La mia cantina non può garantirmi le giuste condizioni di conservazione. Certo che, in ogni caso, le conserve di olive e il secchio per il compostaggio li tengo al piano di sopra, ben lontani dalla cantinetta dei vini...
Nicola Taffuri

giovedì 29 gennaio 2009

Dal Roero appassionatamente


A sentire accostare il suo nome alla viticoltura piemontese di qualità verrebbe da immaginarselo come un anziano viticoltore a spasso per le vigne nebbiose del Roero a bordo del suo trattorino con tanto di cani al seguito. Invece no. Di quell'Enrico Serafino che nel 1891 fondò a Canale (Cn) la sua omonima cantina, è da tempo rimasto solo il marchio di una rinomata azienda langarola che dal 2004 è entrata a far parte del Gruppo Campari.
Resta, l'aspetto poetico, nella bellissima sede storica a Canale e nell'incantevole dolcezza del paesaggio che disegna anche questa parte di Langhe alla sinistra del fiume Tanaro. Quella per intenderci, sulla sponda opposta rispetto ad Alba, Barolo e Barbaresco, i feudi dell'eccellenza del nebbiolo.
Ciò non toglie che questa uva straordinaria possa dare grandiosi risultati anche qua, nel Roero. Domenica scorsa mi è capitato, per esempio, di stappare una bottiglia di "Pasiunà", il Roero Docg "Cantina Maestra", la linea di punta della Enrico Serafino.

Roero Docg Pasiunà 2005 Enrico Serafino
In piemontese "pasiunà" significa appassionato, fatto con passione. Parola che ben si addice a questo Roero 100% nebbiolo, dal colore granato limpido con caratteristica unghia aranciata e bella consistenza. Intenso, complesso e fine al naso, seduce con una ricchezza di sensazioni che rimandano alla frutta rossa sotto spirito, alla marmellata di prugne, ai fiori secchi, al tabacco, alle spezie dolci, alle caramelle balsamiche, per finire con quel tocco di "tartufato" molto tipico e gradevole. In bocca è robusto, morbido, di bella freschezza e sapidità, con un tannino elegante che provoca una gustosa sensazione di astringenza. Ottimo il ritorno delle sensazioni avute al naso, bella la persistenza fruttata, non infinita ma comunque ottima per portarsi via gli aromi dell'ultimo boccone. Magari di un gorgonzola dolce, di un Parmigiano 24-36 mesi oppure di un pecorino di media stagionatura.
Decisamente appetibile anche il prezzo, visto che con 18 euro è difficile trovare in enoteca un nebbiolo migliore di questo "appassionato" piemontese. (foto sotto: il fiume Tanaro e, in fondo, il territorio del Roero, visti dal castello di Barbaresco)
Nicola Taffuri

sabato 24 gennaio 2009

Alla faccia del "prosecchino"

L'altro ieri sono andato a fare un giro per le agenzie interinali alla ricerca di un qualsiasi lavoro che possa rendere meno penoso l'inesorabile assottigliamento del mio conto in banca. Missione, per il momento, fallita. A differenza di una decina di anni fa quando, ai tempi dell'università, un giorno sì e un altro pure mi telefonava la cooperativa per la quale lavoravo saltuariamente, offrendomi manovalanze di ogni tipo nelle industrie della zona, al giorno d'oggi non è mica scontato riuscire a faticare nemmeno come operaio semplice. Anzi.
Sconsolato, ho deciso di andare a cercare commiserazione presso il mio caro professore di italiano delle medie e pure del liceo (!). Sapendo che mi diletto da tempo di vini, il mitico prof. mi ha accolto annunciandomi "dammi tempo 10 minuti che ho appena messo un prosecchino in frigo". Erano quasi le 18, orario perfetto per l'aperitivo.
Sul grande tavolo dove il caro amico ormai in pensione continua a svolgere privatamente il suo ruolo di maestro di vita per le nuove generazioni, incastrato tra vocabolari di latino, appunti sparsi, ritagli di articoli di giornale e il libro di Stefano Rodotà "Perché Laico", c'era bell'e pronto un vassoio con olive, pistacchi, salatini e patatine.
"Ok, ora dovrebbe essere fresco, vado a prendere la bottiglia".
Dopo qualche secondo riappare tenendo tra le dita due flûtes e nell'altra mano l'inconfondibile silohuette della Cuvée Prestige di Cà del Bosco.
"Scusa, eh, ma sarebbe questo il tuo "prosecchino"?"
"eh, va beh, me l'ha regalata una ragazza che viene a fare lezioni"
"ho capito, ma questa è una bottiglia di lusso, è un peccato aprirla ora"
"taci e stappa"
"ok, prof."


Franciacorta Docg Brut Cuvée Prestige Cà del Bosco
Il raffinatissimo packaging che avvolge l'ultimo nato dell'azienda di Erbusco vuole forse strizzare l'occhio al mitico Champagne Cristal di Roederer. E qui chiudo le analogie con le leggendarie bollicine francesi.
Frutto dell'assemblaggio di vini da uve chardonnay (75%), pinot nero (15%) e pinot bianco (10%), questo Metodo Classico ha spuma ricca e perlage fine e persistente. Come colore siamo sul paglierino con riflessi verdolini. Al naso spiccano le sensazioni fruttate di agrumi e pesca gialla, accompagnati da altre note minerali e dal profumo dei lieviti della rifermentazione che danno l'inconfondibile aroma di pane appena sfornato. In bocca è cremoso, fresco, di ottima acidità e pregevole complessità aromatica. Non ha una grandissima persistenza ma stuzzica davvero il palato e invoglia a berne ancora e ancora. Magari non con le patatine, meglio con gli antipasti e primi piatti con salmone, oppure con i gamberi e altri crostacei. In enoteca costa intorno ai 25 €, poco per un Franciacorta perfetto da regalare ma anche da bere! Alla nostra, prof.
Nicola Taffuri

lunedì 19 gennaio 2009

Un rosso rotondo? Quello di Cà del Bosco, per esempio

In questo continuo impazzare di rubriche giornalistiche dedicate al mondo del vino c'è uno stucchevole (oddio, eccone qui uno!) abuso di sostantivi e aggettivi inflazionati che oramai il nostro cervello non registra più. Come con i profumi, anche con le parole è alto il rischio di assuefazione. E il passo verso la noia, prima, il rigetto, poi, è davvero breve. Ieri sera, per esempio, una mia amica mi prendeva amabilmente per i fondelli perché avevo definito "rotondo", il vino rosso con cui stavo pasteggiando. Fateci caso. Non c'è vino che qualsiasi sedicente esperto ci consigli che non sia "rotondo". Beh? E che mi sta a significare? Scivoloso? Morbidoso? Roteante? Premesso che un grande vino non deve essere necessariamente rotondo ma, a mio giudizio, deve farsi notare per personalità (no, ne ho detta un'altra!), ecco come ho cercato di spiegare il concetto alla mia amica, alle prese con una forsennata roteazione di uno Chardonnay barricato.
Un vino è rotondo quando nessuna delle componenti del gusto prevarica sulle altre. Ovvero quando l'acidità, la sapidità, l'astringenza amarognola del tannino (solo x i rossi), le parti alcoliche e quelle dolci sono in equilibrio reciproco. Uno degli esempi più in voga in ambito giornalistico è quello musicale del coro o dell'orchestra dal suono armonico e melodioso. Io che ho la fissa per il rock e il Boss potrei dirvi: ascoltatevi Born to run, No surrender, Hungry Heart e avrete un esempio del concetto di "rotondità"! Ascoltatevi un pezzo dei Rage against the machine o dei White Stripes e avrete un esempio, invece, di "spigolosità". Rotondità e spigolosità, termini contrapposti che tuttavia non hanno necessariamente una connotazione positiva o negativa. Questione di gusti.

La degustazione
Il vino che ho assaggiato ieri, senza voler ambire alla stoffa del campione, vanta comunque evidenti caratteristiche di rotondità. Si tratta del Curtefranca Doc Rosso 2002 di Cà del Bosco. Maurizio Zanella, presidente della maison spumantistica di Erbusco, e il suo enologo Stefano Capelli lo fanno con una miscela di merlot, cabernet franc, cabernet sauvignon, nebbiolo, barbera. Uve che danno, ciascuna, un personale contributo all'ottima fattura di questo vino. Colore rosso granato scuro, profumi intensi ed eleganti di frutta rossa, spezie ed erbe aromatiche, quando entra in bocca ci riporta delicatamente alle sensazioni avute al naso, tenendo ben salde le redini di tutte le componenti del gusto. Si lascia bere con un piacere e una facilità tali che il secondo calice è automatico. Soprattutto se ci troviamo di fronte, come nel mio caso, a un ricco tagliere di salumi e formaggi misti. Costo in enoteca, circa 13 euro.
Nicola Taffuri

mercoledì 14 gennaio 2009

Ultimi Raggi ricordando Marco

Dal 2002 è sempre un vendemmia tardiva ma è entrato nella denominazione Valtellina Superiore Docg Sassella. Fino al 2001 è stato invece un Terrazze Retiche di Sondrio Igt, nebbiolo in purezza. Io ho avuto il grande privilegio di assaggiare proprio quell'ultima annata di quello che potremmo tranquillamente definire, facendoci gioco degli amici toscani, un "Supervaltellinian". Anche se, vista la limitata quantità di bottiglie prodotte, l'Ultimi Raggi non ha la competitività internazionale dei blasonati Igt toscani noti come "Supertuscan" (vedi il Fontalloro della Fattoria di Felsina, il Tignanello dei Marchesi Antinori, il Suolo di Argiano, l’Acciaiolo del Castello d’Albola e via dicendo).
Il produttore di questo superbo valtellinese è la famiglia Pelizzatti Perego (Ar.Pe.Pe.), profondi conoscitori del nebbiolo e vignaioli senza compromessi. I loro vini lasciano la cantina quando sono davvero pronti, il mercato può aspettare. Si fanno attendere, come gli ospiti più importanti, ma quando arrivano prendono la parola e non ce n'è più per nessuno.

La degustazione presso l'Agriturismo Il Ronco, Garlate (Lc), 0341.682523
Attenzione quando lo stappiamo. Il tappo è lungo e per metà ben intriso di vino, quindi se non andiamo fino in fondo con la vite rischiamo di romperlo.
Ve lo dico perché a me è successo e mi sono sentito un po' un pirla, per dirla alla Mourinho.
Per favorire una giusta ossigenazione abbiamo usato un décanter, nel timore, rivelatosi poi inutile, che ci potesse essere del deposito sul fondo della bottiglia.
Colore granato, scuro e consistente. Profumi ampi ed eleganti, ricchi di magnifici sentori di more e ribes, ciliege sotto spirito, viole appassite e rosa canina, accompagnati da deliziose note di tabacco, pepe nero e humus.
In bocca è morbido, caldo ed avvolgente, è sapido, ha ancora una buona acidità e un'elegantissima componente tannica. Le sensazioni avute al naso trionfano in un corpo da fuoriclasse e continuano a deliziare a lungo il palato.
A mio avviso questo vino se la gioca alla grande con i migliori Sforzati, guadagnandoci qualcosa in facilità di beva grazie ai suoi 13,5 gradi alcolici. Giusti per un vendemmia tardiva, pochi per un passito quale è lo Sforzato.
Noi lo abbiamo accompagnato a un Bitto da capogiro, delle estati 2008 e 2007.
Le forme erano quelle che Marco Donizetti, l'infermiere morto prima di Natale cadendo dalla parete Medale del Monte San Martino (Lecco), era andato a prendere con le sue mani negli alpeggi della Val Gerola, cuore della zona di produzione. Io non l'ho conosciuto, ma sono sicuro che un ragazzo 34enne con moglie, figlia e un grande amore per la montagna, la natura e il "fare caciara" attorno a una tavola non poteva che essere una persona speciale.
Nicola Taffuri

domenica 11 gennaio 2009

Italici luoghi comuni

Ieri sera sono andato con un'amica in una pizzeria in Brianza. Bel posto, uno tra i più gettonati della zona, servizio cortese e puntuale, pizze impeccabili. Per gli standard lecchesi, s'intende.
Dopo aver faticato un buon quarto d'ora per convincere la mia compagna di tavola che il vino non è più "cosa da vecchi" - ebbene sì, molti giovani la pensano ancora così! - all'uscita mi è toccato alzare nuovamente gli scudi in favore del vino italiano proprio con il gestore del locale. Tipo simpatico ma, in quanto astemio, persona decisamente poco lucida. Irrimediabilmente convinto che la figura del sommelier con tanto di tasse-de-vin appeso al collo sia qualcosa di superfluo che solo i ristoranti cinquestellati si possono permettere.
Ma dico io, possibile che ci sia gente del settore che crede ancora che ogni sommelier è come il Paolo Lauciani nosioso e ingessato dell'altrettanto noiosa e ingessata rubrica del Tg5 "Gusto"? Un sommelier bravo, capace e cordiale può benissimo lasciare palandrana e tasse-de-vin a casa e presentarsi al nostro tavolo con tanto di maniche rimboccate e grembiule macchiato di sugo. Allargare le braccia con aria profetica e rivelarci, a voce bassa: "Ditemi cosa desiderate e lasciate fare a me, ci penso io a farvi godere". Senza buttarla necessariamente sull'"hard" o sul "trash", la competenza del sommelier, inteso come esperto di vini e abbinamenti, è fondamentale per qualsiasi ristorante, agriturismo e trattoria di buon livello. Un po' meno per quegli strani ibridi che sono i ristoranti-pizzerie. Lì può essere sufficiente anche la simpatia di un oste astemio.
Nicola Taffuri

martedì 6 gennaio 2009

Ottimo rosso della Linguadoca

Bottiglia ammaccata e svenevole che avrebbe ispirato Salvador Dalì, etichetta anticata in stile piratesco. Non c'è che dire: il J.P.Chenet non passa certo inosservato e strizza abilmente l'occhio a tutti coloro che, con sguardo avido, vagano scannerizzando gli scaffali del supermercato alla perenne ricerca di qualcosa di nuovo.
Se poi, come nel caso di questo rosso francese, la curiosità può essere soddisfatta con meno di 5 euro, come non riporne immediatamente un paio di bottiglie nel carrello?

J.P.Chenet Cabernet-Syrah 2007 - Vin de Pays D'Oc
Innanzitutto una precisazione per coloro che non hanno dimestichezza con le denominazioni d'Oltralpe. In Francia i Vin de Pays corrispondono agli italici Igt. Quella specifica "D'Oc" indica la provenienza geografica dalla regione del Languedoc Roussillon. Nulla c'entra, quindi, con le Doc nostrane!
Frutto dell'unione delle uve cabernet sauvignon e syrah, questo vino ha colore rosso rubino con violacei riflessi giovanili e buona consistenza.
I profumi sono intensi, fini e caratterizzati da aromi di frutta fresca come le ciliege e le fragole, seguite da lievi note di erbe aromatiche e dolci speziature di liquerizia. In bocca è corposo, secco e morbido, è fresco e sapido, di rotondo tannino. Ottimo il riscontro gusto-olfattivo e pregevole la persistenza di frutta rossa. Per apprezzarlo meglio non serviamolo sopra i 16 gradi, perché le note dolci potrebbero appesantire il piacere della beva. Io l'ho provato con delle tagliatelle al ragù e con del pecorino sardo di media stagionatura. Davvero eccellente. Finalmente, dopo aver assaggiato Borgogna e Bordeaux tanto cari quanto deludenti, posso dire anch'io, per una volta, "Vive la France!".
Nicola Taffuri

venerdì 2 gennaio 2009

Brindisi australiani, tra pandoro e carne di canguro

*foto presa dal sito del Sydney Morning Herald) Riporto il racconto della mia cara ex collega Arianna, da poco trasferitasi a Sydney assieme al marito. Un ultimo dell'anno speciale, che hanno passato sdraiati su un prato a guardare i fuochi d'artificio sopra l'Opera House e l'Harbour Bridge, nella baia di Sydney. Brindando con ottimi vini. Australiani, naturalmente.
"HAPPY NEW YEAR! Prima di tutto, mi chiedevi cosa abbiamo bevuto col canguro. ;-) Allora, il negozietto sotto casa propina per lo più syrah, cabernet o i due uniti insieme. Quindi, andando del tutto a sentimento, abbiamo provato un Cabernet Sauvignon 2005 della Wyndham Estate che sta proprio in quella Hunter Valley di cui mi accennavi. Non ti so dare le specifiche, of course, ma ti devo dire che ci è piaciuto assai... Mi è sembrato morbido e "ruffiano", ma lo dico solo perché a me, di solito, il Cabernet non piace per niente...invece questo l'ho proprio apprezzato, quindi doveva essere una versione per ignoranti del genere ;-)
Per Capodanno, invece, ci siamo buttati su uno spumante Brut Cuvée della Barossa Valley, il Jackob's Creek. L'etichetta ci tiene a sottolineare che si tratta di un "bottle fermented". Anche in questo caso, io non amo per nulla i brut e invece la bottiglietta si è difesa tanto che ce la siamo bevuta sia insieme a uno spaghetto alla marinara (dove la parte marinara arrivava dalla Thailandia... speriamo in bene! ;-)), sia per il brindisi con una santa fetta di pandoro.
Poi, l'atro vino che abbiamo provato fino ad ora e che ci è piaciuto è lo Chardonnay Rawson's Retreat di Penfolds, che sta nel Sud dell'Australia, dalle parti di Adelaide.
Se mai, per caso, ti capitasse di trovarli e di berli, fammi sapere che te ne pare.
Per quanto riguarda le Blue Mountains, ci siamo stati tre anni fa. Ci sono piaciute, anche perché la loro particolarità è una sottilissima “nebbiolina blu” che avvolge la distesa infinita di piante di eucalipto che copre la zona. Ti dirò che qui ne parlano come se fossero una delle sette meraviglie del mondo. In realtà, se pensi alle nostre Dolomiti… non c’è proprio storia… A confronto sono delle montagnette…
Della Hunter Valley sto leggendo qualcosa ma non ci siamo stati. E’ a un paio di ore di macchina a nord di Sydney, da quel che ho capito. Con i mezzi non è proprio comoda da raggiungere, ma soprattutto da girare… E noi, per il momento, non siamo ancora motorizzati. Ad ogni modo, se ci andrò, ti saprò dire! Tanti auguri ancora e...stay tuned!"

Arianna Lucini